Bruno Filippi – Scritti postumi (Parte 4/5)

La Federazione del Dolore

Io chiamo a raccolta tutti gli spasimi della Terra. Chi ha un tarlo occulto che lo roda, chi porta il lutto per l’Ideale, chi sghignazza sullo sfacelo dell’anima, venga. Ho bisogno che il mio dolore diventi fiumana, bufera; ho bisogno d’udire l’urlo della sofferenza, il gemito della disperazione.
Perché si ride, nel mondo, ed io non posso sentir ridere.
Fratelli di catena, compagni di strazio, la battaglia è vicina. Presto ebbri di vendetta ci scaglieremo all’assalto, e fuggirà il nemico perché è terribile la Federazione del Dolore.

* * *

Da quando nacqui porto il pesante fardello. E le spalle si sono incurvate e gli occhi infossati. Il tarlo rode, rode, mi ha già distrutto.
Basta, perdio! Sono stanco.
Getto il fardello e mi fermo, ne ho abbastanza della vita.
Non ho potuto vivere, mi saprò vendicare.
Creperò su qualche marciapiede, con l’ultima bestemmia sul labbro e l’ultimo guizzo di odio nell’occhio.
Come odio!
L’acciottolato lurido della città mi manda tanfate di fogna. Mi ha avvelenato. Ero così forte prima! Ridevo anch’io allora… Poi….
Devo proprio urlare quello che avvenne, devo proprio denudarmi davanti a voi?
Ma imbecilli, è la solita storia!
Si ama, si spera, si opera, e poi viene lo schifo, il nulla, la disperazione…

* * *

Un giorno mi portarono alla guerra. Io sognavo, allora, ero ancora un bambino.
La prima raffica di mitraglia mi schiaffeggiò crudelmente i nervi; aprii gli occhi, vidi sangue, poi più nulla.
Ricordo una fiammata gigante, un tonare continuo… morti, morti… e fetore, fetore di cadavere….

Io non capisco come mai di quella puzza me ne sia rimasta una tanfata in gola. Mi pare d’essere in un immenso cimitero… croci, bare e puzzo.
La società puzza di cadavere.

Le orecchie mi dolgono orrendamente. È il cannone che ha fatto questo. La belva tonante ha impresso profonde unghiate nel mio povero cervello.
Sento sempre un urlo lontano lontano, come il singhiozzo di un gigante disperato.
Ma chi è che piange nel mondo?

La guerra ha ridestato in me l’animale. Le mascelle sono convulsivamente contratte, gli occhi sbarrati e le mani vogliono stringere, stringere….
Mi sono sorpreso mentre guardavo qualcuno con una voglia strana di sbranarlo. Perché ho voglia di mordere e di sbranare?
Non ci sono più tedeschi, ora; chi devo uccidere dunque?

* * *

Sarò pazzo forse. Ma la pazzia è più terribile della ragionevolezza. Vedo più lontano, sento più vivamente la vita.
Non so che cosa sia, ma il certo sì è che soffro enormemente, molto più di prima.
Prima? Pensare che prima ero un bambino!

Ma perché questo? Che ho fatto? Vedo crescere tranquille le margherite, le rondini vanno e vengono per le vie del cielo. Lasciatemi vivere dunque! Anch’io sono una margherita e una rondine… piace anche a me la rugiada e l’azzurro libero.
E invece…. Ammanettato, infangato, affamato.
Senza amore, senza libertà.

E sia, poiché lo volete. In lupo mi trasformaste e lupo rimarrò. Ma finora m’artigliai il petto, domani altro sangue voglio. Non domandate pietà poi.
Nel mio cervello avete scritto: Strage. E strage sia.
Forse l’umanità è sporca. Ha bisogno di lavarsi, e per questo bagno ci vuole sangue.
Chissà dopo il lavacro e la distruzione….
Chissà se faremo come le margherite e le rondini….
Come sarebbe bello!

Per questo, anime in pena del mondo, io vi chiamo a raccolta.
Il vessillo è già al vento.
È nero: lutto vuol dire.
Avanti dunque, forsennati Prometei.
L’urlo della vendetta è una musica dolce e cara.

Oggi bisogna uccidere, uccidere….
Domani saremo… margheritine…..
Avanti, Federazione del Dolore!

* * *

Il me faut vivre ma vie

Io non credo al diritto. La vita che è tutta una manifestazione di forze incoerenti, inconosciute e inconoscibili, nega l’artificiosità umana del diritto. Il diritto nacque quando ci fu tolto. Infatti in origine l’umanità non aveva nessun diritto. Viveva, ecco tutto. Oggi invece di diritti ve ne sono a migliaia; si può dire senza errare che tutto quello che ci manca si chiami diritto.
Io so che vivo e che voglio vivere.
È molto difficile mettere in azione questo voglio. Siamo circondati da un’umanità che vuole quello che vogliono gli altri. La mia affermazione isolata un delitto dei più gravi.
Legge e morale, a gara, m’intimoriscono e persuadono.
Il “biondo rabbi” ha trionfato.
Si prega, s’implora, si bestemmia, ma non si osa. La vigliaccheria, carezzata dal cristianesimo, crea la morale, e questa giustifica la vitae genera la rinuncia.
Ma questo desiderio di vivere, questa volontà, vuole pure svolgersi. Il cristiano si guarda bene in giro, osserva se nessuno lo guarda, e tremando compie il peccato.
Così la vita è peccato; il desiderio: peccato; l’amore: peccato. Ecco l’inversione.
«Sgualdrina, femmina da tutti, non vergognarti del mondo. Tu sei franca e leale. Offri ciò che è tuo a chi compra, non dai né togli illusioni.
La società, invece, onesta e pulita nel viso, e incancrenita orrendamente nel corpo, m’eccita il vomito, l’orrore, mi fa schifo, m’uccide».

Io invidio i selvaggi. E potessi gridar loro a gran voce: «Salvatevi, arriva la civiltà!».
Sicuro: la nostra cara civiltà di cui andiamo tanto fieri! Abbiamo abbandonato la libera e felice vita delle selve per questa orrenda schiavitù morale e materiale. E siamo maniaci, nevrastenici, suicidi.
Che m’importa che la civiltà abbia dato le ali all’uomo per bombardare le città, che m’importa di sapere le stelle del cielo e i fiumi della terra?
Ieri non c’erano i codici, è vero, e a quanto pare si faceva giustizia sommaria.
Barbari tempi! Oggi invece s’accoppa la gente con la sedia elettrica, a meno che la filantropia di Beccaria non la torturi per tutta la vita entro un ergastolo.
Ma io ve la lascio la vostra sapienza e i vostri 420, vi lascio Sottomarini e Caproni. Ma ridatemi la bella libertà, la mia ignoranza, la mia vigoria. Ieri il cielo era bello da guardare; lo mirava lo sguardo dell’inconscio.
Oggi la volta stellata è un velo plumbeo che ci sforziamo invano di passare, oggi non si ignora più, si dubita.
Tutti questi filosofi, questi scienziati, che fanno?
Che delitti meditano ancora verso l’umanità?
Io me ne frego del loro progresso, io voglio vivere e godere!
«Scimmia delle foreste bornesi, Darwin ti ha calunniato».

Intanto tutto il mio essere mi urla: «Voglio vivere!».
Mi strappo dalla fronte le spine della rinuncia cristiana e bevo il profumo delle rose.
Sto bene ora. Sono lieto di vivere!
Fischiano le sirene e la folla beata va allo scannatoio.
E tu pure o ribelle sali il tuo calvario, tu pure sei bacato!
Come invidio il grande Bonnot!
«Il me faut vivre ma vie!».

È inutile, sono bacato. La società mi ha vinto. E odio.
Odio forsennatamente questa umanità bruta che mi ha ucciso, che ha fatto di me una scorza d’uomo.
Vorrei potermi mutare in lupo, per affondare i denti e artigli, in un’orgia di distruzione, nel ventre putrido della società.

* * *

Libera uscita

Io sono un animale strano. Vivo tra i pidocchi e mi nutrisco di baccalà. Abito quei sudici e opprimenti penitenziari che si chiamano “caserme” ed imparo ad uccidere. In questi lunghi anni di abbrutimento e di strage, ho perduto la mia coscienza d’uomo. Per questo me ne vado tristemente per le grandi città, col mio grigio-verde sbrindellato ed i miei scarponi ferrati.

Chi mi chiama “fante glorioso”? La gran gloria, perdio! Perché ho vissuto quattro anni tra i cadaveri e il sangue, perché mi sono scagliato mille volte all’assalto ubriaco di un odio non mio, voi mi chiamate “glorioso”!
Via da me questa gloria infame! Non posso dimenticare i grandi occhi dei morti, le immense ferite cancrenose, le pozze di sangue che mi hanno per sempre imbrattato le mani e il cervello!

Posso forse ancora amare io? Posso ancora stringere fra le braccia il piccolo figlio innocente? Non vedete che ho negli occhi una perpetua visione di strage? Chi ha vissuto quattro anni fra i morti può forse amare ancora?
Ieri… (quanto è lontano questo ieri!) affondavo il vomere nella terra grassa e cantavo a gran voce tra l’oro del sole e il profumo delle messi. Venne la chiamata, la trincea, i mille agguati della morte. Era duro il pane del lavoro. L’alterigia del padrone lo rendeva scarso e amato. Ma le braccia erano forti e il cuore pulsava fiducioso.
Ora invece son qui, col vuoto nel cervello e la rilassatezza nei nervi.

La guerra è finita. Ma ancora sono prigioniero, ancora vado su e giù per le grandi vie assolate, con lo zaino pesante e il fucile maledetto. Ancora echeggiano comandi e squilli di tromba e ancora obbedisco bestialmente.
La mamma? I bimbi? Ma li ho io forse?
Sono cosa d’altri ormai. Sono divenuto il “fante glorioso”.

O buona terra! Mai più questo tuo figlio scaverà solchi nel tuo sena e canterà al sole. Verrò, verrà il giorno, e tu mi accoglierai fra le braccia, buona terra odorosa, e farai germogliare sul mio capo le timide viole.

Eppure…. Ricordo la furia travolgente degli assalti.
Perché combattevo e morivo?
Perché le mie vene non conoscevano il terrore?
Ho ancora il fucile d’ieri, come ieri il cuore mi batte a grandi colpi.
Perché allora non rinnovo l’assalto travolgente verso il più vero, il più malvagio nemico?
Perché sono diventato vigliacco?

È suonata la ritirata. Ritorno nella triste caserma, mi butterò sul giaciglio aspettando la pace del sonno. Ho guardato morire il sole. Il cielo pareva una immensa chiazza di sangue, una mostruosa ferita aperta nel ventre dell’infinito.
E la terra mi ha parlato. Mi ha sussurrato parole dolci d’esortazione.
Osare… ha detto. E osare ripeteva il vento, e osare stormivano le foglie….
E pure gli ultimi squilli di tromba parvero dire trionfalmente: osare, osare!
Quando saprò osare!

* * *

Parla la dinamite

Dopo l’esplosione nel tribunale una serie di attentati ha gettato lo scompiglio e la paura nella grassa borghesia milanese. Il primo ad essere attaccato fu l’ingegnere Giovanni Breda, titolare dello stabilimento omonimo e noto pescecane.
Esso sfuggì a un tentato vetrioleggiamento e a una bomba esplosa nella sua villa. Poi fu la volta del senatore Ponti, presidente della Società Mecc. Lombarda. Anche contro la sua abitazione fu lanciata una bomba. Tutto però si limitò ad esplosioni formidabili e a danni alle abitazioni. La fortuna proteggei pescecani!
Altra bomba alla dinamite, inesplosa però, fu trovata nella stazione centrale.
La consegna degli esplosivi prosegue alacremente!
Soltanto essa vien fatta a domicilio.
È naturale che mille voci corrano sul movente di questi attentati. Il fatto che gli sconosciuti dinamitardi abbiano scelto gli alti papaveri dell’industria metallurgica, fa supporre si tratti di rappresaglia per la veramente ributtante tracotanza padronale. Ma i signori pescecani se la spassano al Cova e al Biffi, il povero scioperante ingozza poco riso e stringe la cintola. Il capitale non si combatte a braccia incrociate e l’attesa per chi ha fame, è una lenta agonia. Ma i padroni voglion così e nascosti dietro i revolver omicidiari dei carabinieri del re, fanno le fiche alla miseria.
Intanto da parte delle stampa forcaiola si comincia la caccia all’anarchico, e si chiedono le solite leggi capestro. Noi non apparteniamo al numero degli pseudo sovversivi pantofolai, pronti a rinnegare ogni fede per la paura della galera. Ma a chi oggi ci accusa di avere, noi, provocato questi attentati, rispondiamo con cifre e domande lineari:
Chi seminò durante quattro anni di carneficina l’odio e il dolore? Furono i vari Graziani, luridi assassini gallonati.
Finita la guerra la belva borghese perennemente assetata di sangue, malgrado i 507.193 morti immolati al trust e alla banca, volle e vuole ancora uccidere.
Dal 13 aprile a oggi (eccidio di Lainate, morti 3) 54 persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando e la fame. E si grida: Bisogna produrre! Leggevo l’altro giorno che un giovane (diciotto anni!) si suicidava per mancanza di lavoro. Io domando: che cosa si deve produrre? Casse da morto? Dunque la provocazione viene dall’alto. Sono i vari Breda protetti dalla camorra di stato, sono i Centanni cinici, livragatori di folle, sono i “gros bonnet” dell’esercito, lordi di sangue e furenti di libidine.

Reazione? Ben venga. Gli anarchici non la temono, troppo l’hanno affrontata.
Ormai la borghesi si è fatta il deserto intorno a sé.
E ne subirà la pura legge!

* * *

Le lettere

Pubblicando le lettere presenti, vogliamo far conoscere il carattere intimo di Bruno Filippi negli anni giovanili.
Il lettore intelligente noterà la diversità che passa fra il contenuto delle presenti e il contenuto di altri scritti di epoca posteriore. Ma non farà a meno di pensare che se andando avanti negli anni può sembrare cinico e feroce ciò non si deve che all’esperienza della vita e ad una più profonda conoscenza degli uomini.
Filippi ha molto sognato negli anni giovanili. Le lettere presenti ce lo dimostrano. Principalmente la lettere scritta alla famiglia alla vigilia di Natale.
Sognava l’Umanità affratellata e redenta come più o meno abbiamo tutti noi sognato. Ma la realtà ben altro ci dice e Lui lo comprese. E pur pensando con rammarico che bella sarebbe la società nella quale gli uomini tutti sentissero il bisogno di non farsi comandare e di non comandare, non lottò più con questa fede perché questa si era dileguata in Lui alla luce della realtà cruda.
Lottò semplicemente PER SÈ e PER SÈ trovò a morte.
Ciò che rimase di Lui fino alla morte fu l’amore profondo per la famiglia sua che sempre lo tenne presente.
Noi che lo conoscemmo da vicino possiamo affermarlo se non bastano le lettere presenti.
E ciò per rispondere a tutte le calunnia della stampa “onesta” all’indomani della morte sua.

I COMPILATORI

Lettere dal carcere

24-07-1915

Carissimi genitori,
il proiettile che ha ucciso il Gadda avrebbe dovuto colpire me: almeno avrei risparmiato di subire tutti questi dolori.
Io non so assolutamente comprendere il motivo che vi spinge a rampognarmi così acerbamente. Di che cosa sono colpevole alla fine? Questa orrenda guerra che continuamente dilaga schiantando tutto ciò che di più caro e di più bello esiste, non giustifica ad usura il mio comportamento? Si può rimanere indifferenti davanti all’orrendo spettacolo di sangue? Si può tapparsi le orecchie davanti ai pianti e alle maledizioni di migliaia di vittime? Io comprendo come i vostri rimproveri siano dettati dall’affezione che mi portate ma, se esaminate la vostra coscienza, non potete in verità rimproverarmi, perché vi farei certo un’offesa solamente presumendo che davanti all’orrenda strage possiate rimanere indifferenti. Di che cosa ho peccato? Di eccessivo ardire? Ed è una colpa questa? O non è un sacro diritto che abbiamo e che dobbiamo esercitare? Carissimi, nessuno più di me è conscio del dolore che vi reco, ma voi che mi siete genitori, avreste dovuto comprendere che la mia condotta non dipende da un capriccio mio, ma da un vero e reale bisogno al quale non posso rifiutarmi. La natura mi diede un carattere indipendente e schivo da ogni accomodamento che guida le mie azioni. E sarebbe un annichilire tutte le mie volontà, tutti i miei sentimenti, sforzandomi di agire diversamente da quel che mi suggerisce il mio temperamento. Ed è perciò che pur sapendo di recarvi un dolore devo parlarvi così. Non sperate che i patimenti del carcere scuotano le mie condizioni, a ben altro sono pronto, e solo la mia morte potrà por fine a tutto.
Ormai sono in ballo, e ballerò fino alla fine….

* * *

11-12-1915

Miei cari,
per vostra e per mia consolazione. Non pensateci su troppo, passerà anche questa, e più breve ci parrà la separazione se sapremo affrontarla con coraggio.
Ma non abbiate timore.
Per quanto dura possa essere la condanna, non mi troverà impreparato e saprò sopportarla.
Mi aiuta in questo la sicura coscienza di aver agito per una nobile causa, ed anche questo voi dovete comprendere. Piange chi ha agito male, ma chi per giustizia soffre, non piange ma si ricorda sperando e opponendo alla sorte lo splendore di un vessillo. E qui termino, perché volete sapere la verità? Scrivendovi mi nasce in cuore una folle speranza: quella di riabbracciarvi presto.

* * *

04-09-1916

Carissimi genitori,
D’altra parte non è certamente, né col breve colloquio, né on questi brevi foglietti, ch’io posso darvi prova della mia affezione. Perché malgrado il mio atteggiamento possa suggerire, a un esame superficiale, il contrario, gli è certo che io vi voglio bene, e spero non l’abbiate posto in dubbio. Io sono sempre stato alieno da quegli atti che la morale corrente ammannisce per amore, e questo fu da voi interpretato come durezza d’animo. Ma non è certamente dalle apparenze esteriori che si può giudicare un individuo. Così quando disobbedii ai vostri consigli, lo feci perché sono persuaso essere l’amore composto di affezione e non di obbedienza. È un triste retaggio, per noi poveri utopisti, l’essere le nostre azioni e i nostri sentimenti, colorite foscamente, senza riguardo alcuno per la verità. Oggi, mentre l’avvenire mi si para davanti fosco e doloroso, domani quando combattendo per l’Idea sopporterò nuovi strazi, voi mi sarete sempre presenti. Io potrò celare nel profondo del mio cuore la vostra immagine, dimenticarvi mai. Non affrettatevi, come avete fatto, a gittarmi l’anatema. C’è qualche cosa nella vita, cui ogni affermazione deve venir sacrificata, questa è l’Idea. E noi poveri reprobi, che abbiamo offerto all’Ideale, ogni cosa e noi stessi, siamo derisi, insultati e maledetti. Questo però non lo dico per voi che pur rimproverandomi, mi amate. Anzi, perdonate questa mia tirata. Ho dei momenti in cui veder invisi così sfacciatamente i nostri ideali, mi domando se vale la pena di vivere in questo porco mondo.
Basta, il tempo è galantuomo….

* * *

18-04-1919

Mamma adorata,
ti vidi pallida e ansiosa nel Tribunale, e il bacio che mi potesti dare fu così triste che io ne rimasi sconfortato. La condanna me l’aspettavo: è il solito trattamento. Ed io non mi perdo d’animo per questi pochi giorni di prigionia. Ma vorrei che tu pure fossi lieta.
Mamma: il pensiero del tuo dolore è quello che più caldamente mi fa soffrire. Mamma, sappi che ho pianto qua dentro, fra queste mura beffarde che si ridono di me.
Ho pianto ed ho pianto per te.
Non vorrei tu dubitassi della mia affezione per la mia condotta. E se in apparenza io non seguendo i tuoi consigli posso passare per un figlio disamorato, la realtà ben altro dice. E ti dice che il figlio tuo anche per te e per le tue sofferenze combatte. Credilo mamma e stai lieta, quindi. Presto spero venire a colloquio con te e così potrò rivederti. E poi… pochi giorni mi separano dalla libertà e ritornerò fra le tue braccia. Io sto di buon animo e la rappresaglia non m’impaurisce.
Non si può fermare il sole. E il sole siamo noi.
Sempre galera e galera ma non importa.
I vincitori siamo sempre noi….

* * *

Lascia un commento