Bruno Filippi – Scritti postumi (Parte 1/5)

“Pietra di fionda, pietra di saggezza, distruttore di stelle, tu ti sei lanciato in alto. Ma ogni pietra lanciata ripiomba a terra! Eccoti dannato da te stesso alla tua propria lapidazione. Tu hai lanciato la tua pietra molto lontano, ma essa ripiombò su di te.
Così parlo Zarathustra”.

A Milano, la sera del 7 settembre 1919, verso le ore 21, mentre la Galleria Vittorio Emanuele, il Caffè Biffi e tutti gli altri ritrovi rigurgitavano oscenamente della solita “gente onesta” composta da puttane d’alto rango, ruffiani e simili pesci-canaglia, un giovane dimessamente vestito saliva le scale del palazzo ove ha sede il “Club del Nobili” recando un involto. Improvvisamente una spaventevole esplosione getta lo scompiglio e il terrore fra i tremebondi eroi dell’ “andate e noi vi riformeremo”. Una bomba – l’involuto che il giovane dimessamente vestito portava con sé – era incidentalmente esplosa “prima del tempo” riducendo in branelli colui che la portava e che veniva poi identificato per l’anarchico diciannovenne Bruno Filippi.
Noi che lo avemmo come collaboratore assiduo e lo amammo come compagno, inviamo a Colui che ha gettato “gli atomi della propria vita nella ridda urlante della fiamma” il nostro reverente saluto.

Da Iconoclasta!

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Versione digitale dell’opera (di dominio pubblico):
“Bruno Filippi – Scritti postumi”, editi a cura della rivista Iconoclasta (Pistoia, 1920), sotto il titolo “I grandi iconoclasti”.

Opera tratta da Liber Liber, da cui è possibile leggere la biografia dell’autore e scaricare le sue opere.

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La presente pubblicazione comprende la ristampa integrale degli “Scritti postumi di Bruno Filippi” editi a cura della rivista Iconoclasta (Pistoia, 1920), sotto il titolo “I grandi iconoclasti”, un “profilo spirituale a modo di prefazione” scritto da Carlo M. ed un prefazione aggiunta da “I Compilatori” alle “Lettere dal Carcere” di Bruno Filippi ai propri genitori.

Non sappiamo se gli autori di queste prefazioni nutriranno ancora le stesse opinioni che a tale proposito dichiararono di professare in quell’epoca e n quella occasione, ma nel caso contrario, – cosa che non ci auguriamo – facciano nostre quelle idee e quelle opinioni, perché tali erano per noi a quel tempo, e tali sono rimaste, senza tema di essere tacciati di “appropriazione indebita” per velleità polemica….

Se è vero che all’indomani del “gesto improduttivo” compiuto dal nostro indimenticabile compagno, tanto giovane di anni, ma già anziano e maturato dall’esperienza della cruda realtà, la stampa “onesta” ricoprì di calunnie e di fango quella Grande Anima inquieta e insofferente di tutte le brutture della guerra appena conclusa e di quelle di cui già se ne tesseva la trama in uno di quegli ambienti ove si verificò quell’azione, che se pure rimasta “incompiuta” fu un indice sicuro dei focolai di incubazione del cancro fascista che preventivamente sarebbe stato necessario estirpare alle radici, e senza pietà, anche nel campo anarchico vi furono voci “cospicue” troppo cristianeggianti che deprecarono quel “gesto” come manifestazione di un folle traviato dalla lettura di libri “mal digeriti”. Del resto son quegli stessi che avevano già prima condannato la violenza individuale come “incivile e vergognosa”.
Sicuro: quando “il buon senso” e “la logica” prevalgono, tutto si comprende….

Ed ancor oggi, forse più ieri, si giudica il “caso” Filippi a quella stessa stregua. Ci si è detto di recente che il “fatto” individuale è antisociale e “controproducente” perché non ha alcune effetto “costruttivo” per la massa in generale e nel caso specifico, Filippi fu per queste loro considerazioni un “fuorviato”. Forse possono avere anche ragione. Infatti pure per noi, sono “fuorviati” tutti coloro che, partecipi della immensa e informe massa umana che incede lentamente, senza volontà, sospinta per forza d’inerzia sulla grande strada piatta ed infinita della Storia della “Plebe”, sotto il cielo plumbeo ed opprimente dell’abulia che nasconde un orizzonte irraggiungibile e senza speranza, riescono a svincolarsi da quell’orrenda “Camicia di Nesso” che tutti attosca, e violata la “sacra” barriera marginale, costruita e cementata dalla legge, dalla morale, dal conformismo e da tutti gli artifici che tengono incatenato “l’individuo” sullo scoglio dell’obbedienza, s’inerpicano su balze e dirupi per raggiungere le alture ove l’aria è purissima ed il Sole della Libertà vi risplende con i suoi raggi di luce e di fuoco pur rischiando di rimanere inceneriti in un sublime amplesso di liberazione.

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Profilo spirituale
(a modo di prefazione)

Quando siamo convinti che lo scudiscio
non può più nulla contro la nostra ostinatezza,
non lo temiamo più: noi abbiamo oltrepassato
l’età della sferza.
La nostra volontà ostinata, la nostra audacia,
si ergono, più potenti di essa, dietro le verghe
”.
Così l’UNICO di Stirner

Bruno Filippi fu! Non aveva ancora vent’anni quando cadde fatto a brandelli dalla sua idea.

Figlio della rivolta, atomo dell’eterna violenza anarchica, è passato nella vita come una folgore. Un grido ed uno spasimo di dolore: si è arso su di un rogo per illuminare d’un tragico bagliore tutta l’iniquità di un mondo che detestava.

Chi conosceva Bruno Filippi? Ognuno che lo ha avvicinato può aver la pretesa di svelare il mistero della sua anima tormentata dai brividi e dalle fiamme di un’idea.
Ma il istero resta; lo sguardo dell’indagatore non ha potuto sfondare il riparo che celava le profondità di quell’anima.

Ed io che lo conobbi appena adolescente, che lo vidi crescere giorno per giorno, che lo studiai, che ascoltai i suoi pensieri più turbinosi, non riesco a fare l’analisi del suo sentimento.
Poiché la sua vita venne dall’ignoto e sparve nell’ignoto!

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È la psicologia d’un anarchico. Psicologia strana per gli uomini normali. Lapidatemi pure, o credenti nel divenire libertario, ma io affermo che ogni anarchico è un anormale.
Tutto ciò che è passionale trascende dal senso comune. I passionali dell’amore come i passionali dell’arte. Gli anarchici sono i passionali della giustizia e della libertà. L’uomo normale è edonista: cerca il bene immediato. L’operaio che si organizza e sciopera cerca ed ottiene un benessere che la classe borghese vorrebbe contendergli, il politicante che strepita nei comizi e sulle piazze cerca ed ottiene la soddisfazione del suo amor proprio: diventa segretario, consigliere deputato.

Ma l’anarchico? È atteso dal carcere, dalla disoccupazione, dalla fame. La sua vita no è che un tessuto di tormenti e di vicende dolorose. Nessun alloro gli corona la fronte, nessuna vittoria gli sorride. Getta un grido: gli risponde il gelo delle manette; urla una protesta: viene trascinato davanti a un tribunale, seppellito in un carcere.

La sua famiglia si sfascia: la miseria dopo la pena, gli abiti a sbrendoli, la persecuzione senza quartiere.

E pure lotta e non recede. Passa altero fra lo scherno altrui, nel dolore che è l’unica realtà della sua vita.

E tutto per niente!

O credenti nel divenire anarchico, uomini di passione e di fede che soffrite per la vostra idea, ditemi: quale guadagno avete avuto dall’apostolato che vi siete imposti? Quale gloria? Quale vittoria avete ottenuto?

Nulla! Ecco perché, rispetto ai più, noi anarchici siamo anormali. La nostra idea è parte della nostra vita, è il sangue del quale non potremo liberarci se non con la morte; è passione.

Come l’innamorato spasima e soffre per il suo ideale incarnato in una fanciulla, così noi anarchici si spasima e si soffre per un’aspirazione teorizzata in un’utopia.

Ecco la psicologia di Bruno Filippi; venne al mondo portando con sé la sua maledizione, e la sua vita non fu che spasimo passionale. Era un precoce e appena adolescente sentì le prime minacce della sferza.

Guardava nel mondo con occhio attonito perché sentiva che tutto gli era ostile. Cercava la libertà nella vita selvaggia e la civiltà gli negava il sole e la foresta. Cercava la dignità di un lavoro umano e la società gli offriva la schiavitù di un lavoro bestiale.
La vita in lui era esuberanza ed energia.
Il suo imperativo categorico era agire.

Detestava l’attesa perché in lui tutto era folgore. Ateo, non credeva nelle folle. Le sapeva prone sotto lo scudiscio della legge e sapeva pure che era vano il tentare di rialzarle. Soffriva per sé, per la sua libertà che non poteva essere, per il suo vivere che non poteva affermarsi. A quindici anni la legge penale gli fu sopra con una condanna. Egli sorrise: quella condanna fu il principio della fine. La società credeva di avere impaurito un sognatore ed invece aveva creato un ribelle. Lo si elencò allora nei registri sociali con l’aggettivo “pericoloso”, e le autorità agirono di conseguenza.

Ma egli aveva imparato da Ibsen la dottrina della difesa assolute di sé stesso, da Schopenauer la fatalità del dolore umano. Così divenne stoico. La mrte non era che volontà di vivere annientata; l’oltre tomba non poteva essere che il nulla, dissolvente la materia.

Fece suo il motto di Gaetano Bresci: “Quando la vita è impropria è meglio la morte”.
E andò verso la morte, serenamente.

Così doveva essere, e così fu. L’epilogo della vita di un anarchico è una tragedia o un abisso di dolore.
Si scompare fatti a brani dall’odio compresso nella dinamite, si muore di tisi su un letto di un ospedale, esauriti in fondo ad un carcere, sfiniti sul marciapiede d’una via, tremanti di freddo fra le pareti squallide d’un tugurio, affamati sull’orlo di un fossato….

E tutto per un sogno che non sarà mai!

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Arte libera di uno spirito libero

Falange di tisici cronici più moralmente che fisicamente, microcefali, zoppi, gobbi, ciechi, visi orrendi, scolpiti dal vizio, dalla sifilide, dall’alcool.

Bocche sdentate, gialle, bavose, a che vomitate contro me orrendi improperi?

Tutto l’odio che vi gorgoglia nella strozza, che vi fa colare due rivoletti di bava agli angoli della bocca, non si smuove dalla mia indifferenza.

Scuotete per le pugna avvezze a rivoltar letame! E voi donne insultatemi pure, voi nel cui grembo si perpetua il dolore umano.

SIETE TUTTI VILI, VILI!

Esseri spregevoli, degni della frusta!

Rettili striscianti in cerca di uno sporco tozzo di pane, cani che leccate la mano di chi vi batte! Ed è per voi, proprio per voi che dovrei insorgere?

Per voi, per i vostri figli e le vostre madri?

Carogne imputridite nella rassegnazione, mummie tarlate di una società in decadenza, voi vi ingannate. Io non darò la più piccola goccia di sangue per la vostra causa, non sacrificherò neanche una sigaretta per voi.

Continuate nella vostra discesa nel fango. Man mano che voi scenderete, io salirò.

Io godrò nel vedere la degenerazione che si fa strada entro voi, godo, godo….

Giorno per giorno la fronte vi diviene sfuggente, la bocca patibolare. Giorno per giorno le stimmate della putrefazione avanzata si scorgono sotto la pelle giallastra.

E io rido, rido!

Che gioia assistere allo sfacelo di un mondo, vedere dovunque sangue, cadaveri, putredine!

Mentre borghesia e popolo s’ingannano a vicenda e a vicenda si sgozzano.

Io assisto esilarato per tutto questo affannarsi senza scopo.

Là un Kaiser, qui un Wilson ecc…., e dappertutto popoli che si lamentano e non insorgono.

Nel fango, rettili!

Io non voglio unirmi alla coorte dei cortigiani del proletariato, che essi scusano, incensano, ornano di lauri. No, o egregi parolai, la vostra verve non maschera nulla. Il popolo è sempre lì, idiota, vigliacco, rassegnato. Ed io che mi sento superiore, voglio esserlo, e la mia sarà una superiorità che pagheranno e borghesia e proletariato. Languite nella fame, negli stenti, vegetate, bestialmente fecondando uteri in un pullulare di rampolli cenciosi, sucidi, scrofolosi, rachitici.

Forza! Alzate in coro il vostro lamento vigliacco! Dite che avete fame. Stendete la mano di fronte alla vetrina colma di gioielli. Fate, fate!

Lamentatevi della guerra, mentre siete voi i suoi autori e i continuatori perché la sopportate! Ma io fuggo il vostro putridume che vorrebbe insozzarmi. Superbamente solo, rompo le catene che mi avvincono a voi, e mi separo dal gregge dei cani rognosi sommessi al pastore.

Solo vagherò per il mondo portando ovunque il mio odio e il mio disprezzo.

Solo nella lotta. Solo nella vittoria, e solo nella sconfitta.

Le mie idee saranno il veleno che deve finire per intossicarvi e voi tremerete davanti a me come davanti al Re, al supremo!

E intanto rido alla vostra ridda grottesca e sanguinosa, rido tanto che non vedo più nessuno e mi pare che l’umanità sia un’immensa piaga cancerosa che continuamente sgorga marciume denso e puzzolente. E questa piaga si muove, si agita, si copre di croste che poi scompaiono per poi dar posto a un altro sgorgo di materia puzzolente….

E io rido, rido!

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Vecchissimi ruderi di un sentimentalismo ormai tramontato, e che v’ostinate nel vostro muffoso ideale? Non udite la vita che rombando incalza ed insegna?

Finora assorti in un placido sogno di pace, in un avvenire lucente, combatteste così, cogli occhi spersi nella vostra illusione. Ma ora poniamo un problema e voi dovete avere il coraggio di affrontarlo e discuterlo.

Vi poniamo il problema dell’essere o non essere.

Finora il vostro sogno fu l’altruismo, il sacrificio per l’umanità, per l’avvenire. E così voi sacrificaste tutto il vostro essere in questa inversione intellettuale.

Che vi deve importare dell’avvenire?

Che vi deve importare il progresso del popolo?

Poiché voi che vi dite anarchici, siete sicuri d’ingaggiare una battaglia per voi, già persa a priori, perché voi non vedrete certo una società come la sognate, e se anche il popolo si ribellerà le condizioni sociali per voi non possono cambiare, e la vostra ribellione dovrà continuare.

Quindi a che pro scendere tra una massa che non può seguirvi poiché le sue condizioni sono tali da rendervi inintelligibili presso loro? Se voi siete ingegni ribelli come dite di essere, non dovete sostituire all’abnegazione cristiana, all’asservimento patriottico, l’altruismo dell’anarchico che si sacrifica per un avvenire che non vedrà, e per della gente che non vi segue.

Dovete riconoscere che nati in una società per noi perniciosa, noi ribelli siamo in realtà i maggiori schiavi. Schiavi dell’evoluzione noi permettiamo che per mezzo del nostro sacrificio l’umanità faccia un piccolo, minuscolo, passo. E questo almeno bastasse; ma visto che il progresso è incessante e quindi inutile, che la società raggiunta la forma sociale da noi propugnata non potrà lì fermarsi, ma bisognerà che proceda verso uno scopo che oggi non possiamo assolutamente neanche immaginare, così bisogna convenire che questo nostro affannarsi è assolutamente senza scopo.

Così noi osserviamo che le più forti e migliori energie d’ogni epoca sono sfruttate da questa immensa piovra che è l’umanità.

Socrate, Cristo, Bruno e un’immensa coorte di grandi pensatori sono stati le vittime di questo moto ascendente, dannoso per chi lo aiuta e inutile per chi lo subisce. Poiché è naturale che gli schiavi di Roma essendo nati in quell’epoca erano contenti della loro condizione come i salariati d’oggi.

Contentezza, intendiamoci, relativa, formata da rassegnazione, viltà, ignoranza, ecc. ecc. Difetti che la massa avrà sempre in minore o maggior dose perché gli aggruppamenti sono sempre inferiori agli individui.

I popoli sono conservatori: si contentano della società che trovano. Le minoranze sono novatrici invece e si ribellano quindi. La massa col suo peso bruto frena l’azione rivoluzionaria e la subisce.

Si abitua al nuovo stato di cose, vi si imputridisce finché una nuova volta la minoranza si ribella.

Ed è per tutto questo gioco di equilibrio che io devo soffrire?

Io che ho forza e coscienza per essere motore di me stesso, non voglio essere la piccola rotellina che viene dai pesanti ingranaggi sociali travolta, annichilita.

Ribelle, perché oggi la società m’opprime e vuole impedire la libera espansione del mio essere, io adopero tutte le armi per combattere.

Ribelle contro la massa che anch’essa mi è nemica con le superstizioni, morale, degradazione, ecc.

Pure contro la massa combatto.

Solo in lotta per la MIA redenzione, per la MIA libertà, per il MIO presente.

Di tutto il resto me ne infischio.

Trionfi il prete, mieta l’alcool, massacri il governo, non me ne importa perché non mi tocca.

IO solo il mio IO difendo dagli attacchi.

E se nella lotta disuguale io cadrò, certo non solo, avrò la sublime soddisfazione di essere insorto contro un mondo e di averlo battuto, se non materialmente, intellettualmente.

Perché studiosi, scienziati, poeti, romanzieri, pittori, davanti a me il vostro genio non vale. Voi siete un riflesso della vita, io sono l’essenza. E certo sentirete in cuore il dolore atroce del veder crollare i rettorici castelli, e malgrado tutto continuate a sostenerli per misoneismo.
E del resto fate bene.
Voi siete nati per strisciare, io volo.
Per voi il fango, per me le vette.
Per voi il pavido annichilimento, per me la sublimazione dell’essere.
E certo, se la vita è dei più forti, io l’avrò. Per poco, ma l’avrò. La prenderò a forza e a forza le toglierò il bene e il godimento.
E voi, parodie, ombre di uomini: continuate nella vostra marcia nel buio. Sulla mia via splende la luce.
Voi avete paura di essere: ecco la verità. L’uomo vero v’intimorisce. La realtà malgrado il vostro retoricume vi spaventa. E sognate, sognate.
Io vivo.
Voi non siete; io sono.

Ho risolto il problema. Urlatemi dietro…

* * *

“Vorrei sdraiarmi su un soffice odoroso letto di rose…”.
“Guarda alle spine” mi gridano.
“E che me ne importa? Poiché nella vita le spine non mancano, preferisco quelle delle rose che col dolore danno la gioia”.

* * *

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